Informazioni sulle sostanze pericolose e sui parametri adottati
Identificazione della sostanza
Il primo aspetto essenziale nella valutazione di una sostanza chimica è determinare la sua esatta identità. L’identificazione avviene sulla base di:
• Nome chimico, è il nome ufficialmente attribuito a livello internazionale secondo la nomenclatura standardizzata IUPAC (International Union of Pure and Applied Chemistry).
• Nome commerciale, è la denominazione usata dall’industria che produce la sostanza e può essere diverso a seconda di chi immette la sostanza sul mercato.
• Nomenclatura Chemical Abstracts, è la denominazione attribuita dal Chemical Abstract Service, un servizio internazionale che si occupa di identificare in modo univoco le sostanze chimiche. Tale denominazione utilizza la nomenclatura standardizzata IUPAC.
• Numero di registro CAS, è un numero identificativo assegnato dal Chemical Abstract Service ad ogni sostanza chimica analizzata. Il numero di registro CAS è unico e specifico per ogni singola sostanza e ne consente l’identificazione in modo inequivocabile. Conoscere il numero CAS di una sostanza chimica è particolarmente utile per consultare banche dati, manuali e sistemi informatici.
• Formula bruta, indica la composizione elementare della molecola della sostanza utilizzando le lettere dell’alfabeto come simboli per rappresentare gli atomi di ciascun elemento costituente (ad esempio, la formula bruta del 1,2-dicloroetano è C2H4Cl2 dove la lettera C indica il carbonio, la lettera H l’idrogeno e Cl il cloro).
• Peso molecolare, è il primo dato che ci fornisce informazioni, sebbene generiche, sulle caratteristiche di una sostanza. Tale dato definisce le dimensioni di una molecola, da cui dipende sostanzialmente la capacità della sostanza stessa di penetrare nel corpo umano e, di conseguenza, di esplicare i suoi eventuali effetti tossici. Così, composti con alti pesi molecolari, come ad esempio i polimeri, possono avere notevoli difficoltà a penetrare nel corpo umano attraverso la cute e, quindi non sono in grado di esplicare la loro funzione tossica.
• Formula di struttura di una molecola, indica sia la natura degli atomi che la compongono, sia come gli atomi sono legati tra loro, sia la disposizione spaziale degli stessi. È in effetti il miglior modo di rappresentare, su una superficie piana, la struttura atomica di una molecola.
Classificazione ed etichettatura
Le informazioni relative alla classificazione di pericolo ed etichettatura delle sostanze ci consentono di conoscere quali sostanze e preparati pericolosi sono impiegati nel ciclo di lavorazione dell’impianto (o trasformati, o immagazzinati) e che possono essere coinvolti in un incidente chimico rilevante. Per ogni sostanza viene riportato il nome comune o 41generico, la classificazione di pericolo e le sue principali caratteristiche di pericolosità per la salute e l’ambiente. Le informazioni riportate nella Sezione 4 della Scheda fanno riferimento alle norme che regolamentano la classificazione, l’imballaggio e l’etichettatura
di tutte le sostanze chimiche immesse sul mercato.
La legge, sulla base delle specifiche proprietà chimico-fisiche, tossicologiche ed ecotossicologiche delle sostanze, individua e classifica le sostanze in determinate categorie di pericolo (ad esempio, infiammabile, tossico, esplosivo, ecc.). Non tutte le classi di pericolo possono produrre incidenti rilevanti. Nell’allegato 1 sono riportate le specifiche classificazioni di pericolo e i simboli che le rappresentano e che si possono ritrovare sulle schede di sicurezza. Le diverse caratteristiche di pericolosità delle sostanze sono invece espresse tramite:
• frasi di rischio (frasi R): sono riportate in etichetta e indicano la natura dei rischi specifici che comporta l’impiego della sostanza pericolosa. Ad esempio, R12 indica che una sostanza è altamente infiammabile, R23 indica una sostanza che è tossica per inalazione, R24 indica che la sostanza è tossica a contatto con la pelle.
• consigli di prudenza (frasi S): forniscono consigli da osservare durante la conservazione e la manipolazione della sostanza e per il primo intervento in caso d’incidente. Ad esempio, S30 - non versare acqua sul prodotto; S26 – in caso di contatto con gli occhi, lavare immediatamente e abbondantemente con acqua e consultare il medico; S37 - usare guanti adatti.
Informazioni tossicologiche
Le informazioni relative alla definizione degli effetti tossici di una sostanza chimica generalmente derivano da sperimentazioni tossicologiche condotte con animali da laboratorio e, più raramente, da osservazioni dirette sull’uomo (Sezione 8).
Gli studi sperimentali su animali consentono una precisa definizione delle dosi, degli effetti e della relazione che intercorre tra loro, ma pongono il problema di estrapolare le informazioni raccolte all’uomo. Può accadere infatti che gli effetti indotti dalla sostanza in esame siano diversi per le diverse specie animali. Ad esempio, la diossina che risulta essere tossica a dosi estremamente basse, mostra una marcata variabilità tra le diverse specie di animali da laboratorio: la cavia risulta molto più sensibile del topo e del criceto. Tale variabilità costituisce un parametro che va attentamente considerato nell’estrapolazione all’uomo dei dati ottenuti con esperimenti su animali. Nella pratica infatti si ricorre all’uso di fattori empirici di correzione, che consentono di abbassare la dose sperimentale calcolata sino a mille volte.
La disponibilità di studi tossicologici diretti sull’uomo è inferiore rispetto agli studi sperimentali con gli animali.
Le osservazioni dirette sull’uomo sono generalmente ricavate da situazioni particolari quali:
− esposizioni accidentali, intenzionali a scopo suicida o per sovraddosaggio farmacologico. Tali osservazioni consentono di derivare parametri di tossicità acuta quali la dose letale più bassa LDL0 (Lowest Lethal Dose) e la concentrazione letale più bassa LCL0 (Lowest Lethal Concentration) che abbia causato la morte nell’uomo. Inoltre risultano utili anche tutti quei dati di concentrazione/tempo che possono essere associati a specifici effetti: lieve irritazione, sensazione di bruciore a occhi, naso, gola, insufficienza respiratoria, ecc;
− studi su volontari, osservati prima e dopo la somministrazione di concentrazioni note e non pericolose della sostanza in esame. Questo tipo di dati può fornire utili informazioni su aspetti relativi alla percezione di odori, sapori, o a sensazioni di fastidio;
− studi epidemiologici a carattere occupazionale o relativi alla popolazione generale. Da questi studi è possibile mettere in evidenza associazioni tra l’esposizione ad un sostanza e una patologia.
La tossicità delle sostanze derivata da studi sperimentali può essere suddivisa, in rapporto alla durata dell’esposizione in:
− tossicità acuta, quando le esposizioni sono limitate ad un’unica somministrazione della sostanza in esame o a tempi non superiori a 4 ore;
− tossicità subacuta, quando le esposizioni sono riferite ad un periodo continuativo di 28 giorni;
− tossicità subcronica, quando le esposizioni sono riferite ad un periodo continuativo pari a circa il 10% della vita dell’animale;
− tossicità cronica, quando le esposizioni sono riferite ad un periodo continuativo pari all’intera vita dell’animale.
La tossicità acuta viene espressa attraverso dosi letali (DL), quando sono riferite ad esposizioni orali o cutanee e concentrazioni letali (CL), quando sono riferite ad esposizioni inalatorie. Queste variabili sono corredate da un suffisso numerico che indica la frequenza percentuale di animali del gruppo in studio che sono deceduti a causa dell’esposizione e della specifica durata dell’esposizione. Le concentrazioni e dosi letali più largamente note sono la CL50 e la DL50, che rappresentano rispettivamente:
• CL50 (per inalazione), la concentrazione in aria che si stima possa causare la morte del 50% degli animali esposti per 4 ore, sia durante l’esposizione sia dopo un determinato periodo di tempo. La CL50 è espressa come milligrammi della sostanza nell’atmosfera per litro di aria (mg/l);
• DL50, (per via orale e/o per via cutanea), la dose che statisticamente produce la morte del 50% degli animali trattati per una determinata via di somministrazione. La DL50 è espressa in milligrammi della sostanza per chilogrammo di peso corporeo dell’animale (mg/kg di peso corporeo).
• Un altro indicatore di tossicità utilizzato è l’IDLH (Immediately Dangerous to Life and Health). Esso è definito come la concentrazione massima di una sostanza nell’ambiente alla quale un individuo sano può restare esposto per un tempo di trenta minuti - senza che ciò ne determini la morte o danni organici irreversibili – tali da impedirgli di allontanarsi dal luogo dell’incidente o di adottare le opportune misure protettive. Essendo concentrazioni in aria, i valori IDLH sono espressi in ppm (parti per milione) o mg/m3.
Attualmente questo è il limite maggiormente utilizzato per identificare le aree a rischio per possibili rilasci accidentali di sostanze tossiche. Il NIOSH (National Institute for Occupational Safety and Health) nella Pocket Guide to Chimical Hazards ha pubblicato il limite IDLH per circa 400 sostanze. La guida è consultabile sul sito web del NIOSH all’indirizzo: www.cdc.gov/niosh
IDLH è un parametro sviluppato originariamente per la protezione della salute dei lavoratori e non per la pianificazione delle emergenze. Ciò significa che la popolazione generale, in cui sono presenti donne in gravidanza, anziani, bambini, malati, ecc, potrebbe non essere adeguatamente protetta dall’uso di tale indicatore nella pianificazione dell’emergenza. Per questo motivo l’Agenzia Americana per l’Ambiente (U.S.-EPA, Environmental Protection Agency) ha proposto di considerare nella pianificazione d’emergenza per le installazioni che manipolano sostanze pericolose, un livello d’attenzione LOC (Level Of Concern), da utilizzare per l’esposizione della popolazione generale.
I valori LOC indicano la concentrazione in aria della sostanza pericolosa alla quale, a seguito di un’esposizione relativamente breve, possono prodursi effetti dannosi per la salute. Il LOC ha un valore pari ad un decimo dell’IDLH.
Informazioni ecotossicologiche
La capacità di una sostanza di provocare effetti avversi sugli ecosistemi viene espressa, analogamente a quanto accade per l’uomo, da un sistema di indicatori che va sotto il nome di proprietà ecotossicologiche (Sezione 8 della Scheda). La pericolosità di una sostanza deve essere riferita alle specie che vivono nei tre principali comparti che costituiscono l’ambiente: aria, acqua, e suolo. Questi comparti non devono essere considerati separati tra loro: la sostanza può infatti migrare da uno all’altro con più o meno facilità in funzione delle sue proprietà chimico-fisiche, in funzione di processi meccanici e processi biologici. Su tutti possono influire parametri ambientali quali la temperature, l’umidità, la turbolenza, le precipitazioni atmosferiche, la ventosità, il soleggiamento, ecc.
È facile prevedere, ad esempio, che un contaminante solubile in acqua, qualora sia rilasciato sul suolo, possa migrare, attraverso la fase acquosa dello stesso, verso corsi o bacini idrici superficiali o, permeare nel terreno sino a raggiungere le acque sotterranee. Analogamente se il composto fosse rilasciato in aria potrebbe ricadere al suolo per la sua solubilizzazione nelle acque meteoriche o, se rilasciato in acqua potrebbe migrare nell’atmosfera in funzione della sua tensione di vapore. Ne consegue che tutte le specie viventi, sia che vivano nel sito, sia che vivano a distanze anche notevoli da esso, potrebbero essere potenzialmente danneggiate dal rilascio.
• Biodegradabilità, descrive il processo di trasformazione/degradazione di un composto ad opera di organismi viventi, batteri e microrganismi, che lo utilizzano per il loro sviluppo (degradazione biotica). Le sostanze chimiche di sintesi sono infatti essenzialmente costituite da carbonio, oltre ad altri elementi quali idrogeno, ossigeno, azoto, zolfo, fosforo e, meno frequentemente, da altri elementi che possono essere degradati e trasformati da batteri e microrganismi. Per valutare la biodegradabilità di una sostanza organica, i vari metodi definiti in sede internazionale si basano essenzialmente sulla determinazione della quantità di ossigeno necessaria, in funzione del tempo, per ossidare il carbonio presente nella sostanza in esame (BOD – domanda biologica di ossigeno).
• La dispersione di una sostanza nell’ambiente è influenzata dalle proprietà intrinseche della sostanza stessa (tensione di vapore, solubilità in acqua o nei grassi, densità relativa all’aria e all’acqua, peso molecolare), dall’interazione con i recettori con cui la sostanza entra in relazione, quali l’esistenza di corsi e bacini idrici, venti dominanti, possibilità di adsorbimento e desorbimento nel suolo e dall’interazione con le attività antropiche, quali le attività industriali, artigianali, dell’agricoltura, domestiche. La dispersione ambientale è comunque un fattore di proporzionalità capace di moltiplicare
o demoltiplicare i rischi per l’uomo e per l’ambiente, in funzione dell’esposizione, che sarà maggiore o minore, proporzionalmente alla maggiore o minore dispersione. Allo stato attuale non esiste alcuna codificazione, sia pure convenzionale di tale parametro.
Tuttavia è possibile diversificare diverse entità di dispersione di una sostanza:
− dispersione generalizzata su vasta area: quale quella di contaminanti ubiquitari (pesticidi, fertilizzanti di ampio uso in agricoltura, contaminanti da emissioni di autoveicoli, emissioni da vasti impianti industriali);
− dispersione di impatto rilevante ma limitato da una rapida eliminazione o uso ristretto o specialistico, come ad esempio sostanze di rilevante significato tossicologico ma caratterizzate da alta volatilità o comunque facilmente eliminabili;
− dispersione circoscritta nel punto di emissione ma dotata di mobilità, come nel caso di emissioni da impianto di riscaldamento domestico, contaminanti da discariche di rifiuti, emissioni da inceneritori;
− dispersione localizzata in piccole aree.
• La persistenza di una sostanza nell’ambiente è un elemento di fondamentale importanza nell’identificazione del rischio associato a rilasci accidentali. Essa è, infatti, funzione dell’interazione tra il composto rilasciato e la matrice ambientale su cui esso va a collocarsi e dipende da processi quali la mobilità ambientale e la degradazione.
Abbiamo già visto come la degradazione di una sostanza possa avvenire per azione della componente biotica che sfrutta le sostanze di sintesi per il proprio accrescimento rimuovendole dall’ambiente. Analogamente la degradazione di una sostanza può avvenire per effetto della radiazione solare o per azione idrolitica dell’acqua presente nel suolo o nell’aria come umidità. L’entità della degradazione (e quindi della persistenza) di una sostanza nell’ambiente è espressa in termini di tempo di dimezzamento (T1/2), cioè il tempo necessario affinché la concentrazione iniziale della sostanza sia ridotta del 50%. Questo dato può fornire importanti elementi di valutazione relativamente ai tempi di scomparsa della sostanza dall’ambiente.
• Bioaccumulo/Bioconcentrazione. Varie sostanze possono accumulare negli organismi viventi e ciò in funzione del particolare metabolismo, della specifica struttura organica, della tipologia di alimenti di cui si nutrono. I pesci, i crostacei, gli uccelli, le piante possono bioaccumulare elementi e sostanze chimiche e il bioaccumulo può magnificarsi nel tempo nella stessa specie e da una specie all’altra. Anche l’uomo non sfugge a questa possibilità e consumando alimenti e bevande che possono essere contaminati costituisce l’ultimo anello della catena trofica ed è quindi esposto a rischi di tipo cronico. Il bioaccumulo è caratterizzata dalla maggiore affinità di alcune sostanze per i grassi rispetto all’acqua. I pesci e gli altri organismi acquatici riciclano in continuazioni grandi quantità di acqua: se nell’acqua sono disciolte sostanze caratterizzate da una liposolubilità maggiore della idrosolubilità, essa verrà immagazzinata nei grassi dove potrà raggiungere concentrazioni superiori a quelle rilevabili nell’acqua.
(fonte: protezionecivile)